Mosaic – “Heimatspuk” (2022)

Artist: Mosaic
Title: Heimatspuk
Label: Eisenwald Tonschmiede
Year: 2022
Genre: Atmospheric/Folk Black Metal
Country: Germania

Tracklist:
1. “Wir Sind Geister”
2. “Die Alte Straße”
3. “Teufelsberg”
4. “Hullefraansnacht”
5. “Blutnelke”
6. “Der Köhlerknecht”
7. “Nordwaldrauch”
8. “Heilstatt”
9. “Unterhulz Zoubar”
10. “Tief Verschneit Die Ganze Welt”

“Es ruft mir aus der Ferne, eine Auge sieht mich an, ein alter Traum erfasst mich und führt mich seine Bahn…”

L’alpino esploratore esperto di tutti quei sentieri tortuosi che portano e convergono sul punto più alto della Montagna del Diavolo, ormai di ritorno calcando in direzione opposta i suoi versanti bassi fatti d’oro blu, rocciosi simulacri d’infiniti tesori d’ardesia, abbandona tramite le pendici dei Monti Metalliferi il più sicuro cammino illuminato dagli ultimi bagliori sinistri del giorno che cala, tramutatosi velocemente in piena notte sopra di sé. Sotto i suoi piedi si apre invece -e senza che se ne renda inizialmente conto- una cospicua distesa di impreviste stelle alpine color del sangue: un tappeto purpureo che lo attira verso di sé agghiacciante, circondandolo dal di sotto come sabbie mobili mentre i pini, di sopra, si chiudono in cerchio oscurando i rimasugli del sole oltre le nubi. I loro tronchi nodosi diventano come arcigni volti di troll; le loro fronde nere nascondono piccoli occhi d’ambra che scrutano il rapimento di un sicuro viatore divenuto incauto nell’atto spregiudicato di appropriarsi, col suo falcetto e cesto già ricolmo in spalla, dello spirito di quel sacro luogo: prendendo ciò che non gli è stato concesso spontaneamente dai suoi immobili, irremovibili e silenziosi guardiani che ne incarnano immaterialmente le viventi memorie. Ma l’ululato dello sgomento spirito tradito da un volto familiare suona come un vecchio, antichissimo amore mai sopito; come la promessa di una vendetta d’impalpabili e pallidi esseri anche un po’ divertiti dallo scorrere del tempo da cui sono immuni, e che abitano il rigido autunno mitteleuropeo come le sue fresche estati, auf ewig und immerdar; suona come la promessa di un ritorno dagli abissi della memoria collettiva e umana di un’intera regione persa nel nulla di quegli altopiani sparpagliati nel più centrale cuore dell’Europa fisica.

Il logo della band

La modernità che sta loro intorno, per come abbiamo avuto la sfortuna di conoscerla, marcisce in piena rovina consumata dallo stesso motore a spinta che l’ha ingozzata ed insozzata per lunghissimo tempo. Il progetto Mosaic, va da sé, continua pertanto a non farne parte: a non trovare alcun posto per sé e la sua raison d’être nei suoi ingranaggi affilati e spietati che hanno dimenticato la centralità di terra ed aria. Continua piuttosto ad essere l’intima e sola riflessione, il tentativo di contemplazione su ciò che esiste del suo creatore Martin Van Valkestijn abbandonati i più scenici panni dell’Inkantator Koura, dismessi subito dopo l’uscita di scena del padre dell’inverno nel 2017: una vera e propria fuga dall’opprimente mondo esterno verso la catarsi di quello interno, musicalmente vissuta in momenti di malinconia e di nostalgia dalla pesante agrodolcezza. Ed una volta di più tutto ciò si traduce nell’inclinazione verso l’immobilità calma di antiche tradizioni, verso le vivaci rime che profumano di dialetto regionale, verso le liriche e le autunnali ricorrenze della sua madre Turingia; nei suoi fantasmi che, come in un romanzo del più settentrionale Vesaas o in una poesia dei locali Goethe e Trakl, assillano e fanno da fedele compagnia e rifugio all’uomo semplice che fatica a non perdersi nel mondo che corre impietoso attorno a lui e alla sua profonda inadeguatezza.
Più che di un ritorno alla peculiare forma ibrida di un narratologico Black Metal all’argento vivo o al Metal di natura più atmosferica e -per l’appunto- narrativa possibile, a quella simbiosi tra atmosfere trasognate e soundscape mistici con motivi tradizionali e primitivi di natura Urfolk, per i Mosaic l’heimat-spuk è in maggiore e migliore sostanza un affilamento decisivo di quelle troppo eterogenee tendenze sperimentali che avevano eccessivamente inficiato sulla complessiva riuscita di “Secret Ambrosian Fire” dopo l’eccellenza dei tra l’altro per nulla canonici tre capitoli del competo “Old Man’s Wyntar”. Più che il ritorno ad uno stile preciso, o ad una direzione unica, si tratta infatti del ritorno estemporaneo alla formula (nondimeno fisica) della one-man band. L’isolamento di un’epidemia forse metafora di un clima tutto moderno, contemporaneo, che rende possibile al cantore tedesco solo lavorare in completa solitudine, facendo di necessità virtù e dunque tutto da sé: anche questo è l’“Heimatspuk” che prende vita alla solita stramba maniera, con il suo montanaro che raccoglie fiori chiuso in una cornice circolare che ricorda l’icosaedro platonico tra perfetta simmetria e congurenza. La necessità di trovare sé stessi bloccati dal di dentro, nei propri spiriti; e rendersi così conto di esser fatti dei propri spiriti, i gengångare ibseniani che tornano con quella ricorrenza anche stilistica e viatica nel terzo disco completo a nome Mosaic.

Martin Van Valkenstijn

Ja, wir sind wirklich Geister! Fatta propria l’esperienza Paysage D’Hiver, già omaggiata gelida e splendida in “Old Man’s Wyntar”, il suono torna in “Heimatspuk” il più possibile lo-fi pur nella sua cura, ma viene alchemicamente trasformato in quel calore che, nonostante la natura liricamente infuocata, mancava nella musica dei pochissimi pezzi Black Metal del precedente full-length: si pensi al confronto tra l’ottima “Teufelsberg” e la comunque riuscita “The Devil’s Place”. Quella che nel 2019 poteva anche essere esperienza sorella di una “Nordwaldrauch” trova proprio nella travolgente danza in levare di quest’ultima la sua vera ragione d’essere: nello sguardo contemplativo e antico, saggio e anziano, alle punte degli abeti che forniscono parte dell’eterna ispirazione confluita nel nuovo lavoro targato Mosaic. Uno struggimento tangibile, che finisce per allungare e distendere i suoi arti esili ma forti fatti di e-bow e lancinanti melodie dal sustain infinito verso il 2013 dello split “Landscapes” realizzato con la connazionale meteora Depressive Anti; le idee della ottima “Stellar Landscapes” tornano a guidare un eremita che sulle colline del cuore si ritrova costretto all’indiavolata frenesia di “Unterhulz Zoubar” – quadrata, ricorrente, inizialmente statica e insieme fatta di un’evoluzione tutta da assaporare col tempo e con i giri di una ruota ad otto raggi, con riti e costumi che non sapeva di conoscere. Che non sapeva nemmeno esistessero, e che parlano tuttavia al suo cuore come se lì in mezzo vi fosse nato metà d’un millennio prima.
Totalmente assorbiti dunque i ritmi della tradizione folkloristica e della musica Folk anche quando si tratta di comporre insoliti pezzi che si esprimono tramite il più grezzo, scarno dei possibili Black Metal dalla grana a rigorosamente bassa fedeltà, il parallelo con l’ultraterrena creatura di Tobias Möckl non si esaurisce qui: “Heimatspuk” si colora, volontariamente e consapevolmente o meno, proprio di quelle stesse rappresentazioni e suggestioni che nutrono i solchi anche stilistici dell’ultimo “Geister”; brullo, fatto di paesaggi spogli, tetri, esistenziali, dotato di una platealità da opera-radiofonica lo-fi in cui ritrovare come albero solitario il Valkenstijn la cui teatralità sopraffina nella voce sembra quella di un attore immerso nella sua parte creata con la sua sola persona – al netto dell’assistenza del partner creativo Danijel Zambo (già autore del remix Trip-Hop della “She-Water” proveniente dal precedente disco) con cui sono state gettate le primissime fondamenta delle canzoni, poi rivestite d’intuizioni e spirito, d’impressionismi musicali intrisi di sangue ed oscurità.
E proprio volendo analizzare questa sempre più importante e radicale natura trasversalmente Folk che permea ogni intenzione ultima e penultima di “Heimatspuk”, occorre all’ascolto qualcosa di estremamente curioso: quando l’acusticità di quest’ultimo ruba la scena quale protagonista unico della canzone davvero raramente è perfetto. Per il vero, non lo è quasi mai; le incertezze stilistiche continuano a trascinarsi per più d’un verso dal ieri della “Coal Black Salt” di memoria Rome o di “Das Lied Vom Köhler” fino all’oggi della commovente “Die Alte Straße” (con quell’inizio in tapping sfumato che sembra omaggiare i Negură Bunget e la struttura non troppo dissimile tra gli esperimenti di “Licht Und Blut”), così come dell’atemporale “Hullefraansnacht” in cui, tra lo sperimentalismo di un’orientalità vagheggiante e l’effettistica vocale, sembra rivivere l’anima di un David Eugene Edwards prestato alla musica nera. Eppure, questa volta, anche i pezzi devoti all’eccentrica fascinazione acustica dei Mosaic per la forma-canzone alpina e un po’ rituale alla Sturmpercht, soprattutto quando maggiormente posseduta ed atipica (si pensi ad un esempio davvero splendido come la minacciosa “Der Köhlerknecht” che vive una vita sua, mai d’intermezzo), riescono a godere di tutta quella ruvida imperfezione di cui godono i brani più pieni di ombre ed oscurità, dalla paurosa concretezza tragica della magnifica “Blutnelke” alla straziante punta di diamante “Heilstatt”.
In questo singolare senso i Mosaic si ripropongono quali raffinati esempi di quella tendenza allo zibaldone compositivo: non per così assurdo degli Isengard per l’era moderna ma contro l’era moderna, nascosti nel loro mondo fatto di odor di casa, del fumo di una pipa in legno, del suo tabacco artigianale e di tradizioni in cui ascoltare, sentire il tepore materno dell’appartenenza; in cui sentire la vicinanza di fantasmi, presenze e geister del folklore che vagano nella intangibile, sottilmente incorporea conclusione affidata alle note rarefatte nel vento gelido di “Tief Verschneit Die Ganze Welt”, dove questi pallidi spiriti dopo i bagordi e gli indiavolati tamburi di “Unterhulz Zoubar” che sprizzano tizzoni ardenti trovano finalmente pace per un solo, mero istante che sembra durare il tempo di un respiro e di un’eternità per sempre incisa nella pietra al contempo.

“Heimastspuk” è dunque un lavoro testardo, rustico, indipendente, lontano dall’usuale, da vivere nella sua pienissima interezza e notevole nella sua inventiva come nella capacità di chi lo scrive, lo performa e realizza, di introdurvi un intero mondo artistico orgogliosamente fuori mano dalla perfezione – e anche per questo tutto proprio. Un disco per simili ragioni sicuramente difficile ma estremamente interessante, graziato da un suono seriamente unico ed inconfondibile, anche e sicuramente rapsodico nonché apparentemente frammentato non meno di quel “Mosaic” dei Wovenhand che nel 2005 ha inconsapevolmente battezzato il progetto tedesco rivelando tra le altre cose a quest’ultimo, come in una irripetibile visione lucida, una direzione estetica dalle infinite possibilità espressive da inseguire. Ma proprio in questa concreta episodicità e in una discontinuità stilistica dotata di estrema e sensibile coerenza interna, “Heimatspuk” è invece magistrale nell’interessare prima e nello stregare poi, quando gli viene donato il giusto e meritato spazio, perché parla la sofisticata ed inesplicabile lingua dell’autunno: di quella malinconica e disperata stagione triste per eccellenza – triste più della morte dell’inverno, perché consapevole condannata a diventarlo troppo presto essa stessa sui colli spiritati della Turingia. Perché nonostante nei suoi occhi regni già il declino della vita, il vacuo freddo sentire di spettri, nel suo cuore dimora ancora la forza espressiva figlia dell’ardere infuocato di una indomita estate.

Hoi Joi!

Matteo “Theo” Damiani

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